Beppe Boron nell'intervento di questa mattina (12 Novembre) propugnava l'arte di strada come componente formativa curricolare di qualsiasi artista “di teatro”; aggiungo io perché non della scuola tout court?
Buona Strada fin dai primi passi mette al centro questa tematica, ovvero quella della ricerca di opportunità per introdurre presso le scuole di ogni ordine e grado attività formative inerenti le arti di strada e di circo contemporaneo, con lo scopo di evidenziarne le peculiarità nell'ambito dello sviluppo fisico e cognitivo di bambini e ragazzi.
Ma in questa sede vorrei maggiormente soffermarmi sull'altra direttrice d'azione del progetto, quella della partecipazione e sollecitazione ai progetti di riqualificazione urbana. Lanciando la suggestione dell'artista di strada come cittadino attivo, che incontra gli altri cittadini attivi “artigiani di strada”, coloro che operano per il benessere della comunità cui appartengono adottando una o più buone pratiche, dagli orti urbani alla promozione di mobilità sostenibili, fino all'assunzione di stili di vita propri delle città in transizione. Credo debba venir meno la distinzione tra artista propriamente detto e il cittadino attivo, lo stesso che in una dimensione di appassionata marginalità, pianta orti, promuove flash mob etc, con la stessa caparbietà del giocoliere che realizza la più “inutile” eppur appagante delle performance.
Se vogliamo però che tale cittadinanza si attivi per l'arte di strada, anche gli artisti devono incrociare i processi di cittadinanza attiva. Nel momento in cui l'artista vede il solo dato di opportunità “commerciale”, si perpetua l'immagine del produttore di senso estetico un po' anarchico, fuori dai processi partecipati che ormai caratterizzano largamente le vite delle nostre città, giungendo, anche se spesso non certo per sua responsabilità, buon ultimo, sorta di ciliegina sulla torta che altri hanno prima di lui preparato e confezionato.
Se gli artisti, insomma, si limitano a “commerciare”, non sorprenda che poi agli incontri con le amministrazioni si presenti l'assessore al commercio accompagnato magari dai vigili, come si diceva negli interventi che mi hanno preceduto, mentre sarebbe auspicabile e più opportuno confrontarsi con gli operatori della cultura, della pubblica Istruzione, delle politiche sociali.
L'arte di strada interpretata da troppi nostri interlocutori pubblici come problema di ordine pubblico porta con sè la sindrome da divieto, l'illusione di risolvere problemi complessi con soluzioni semplici (un po' come il grottesco filo spinato che dovrebbe risolvere il problema dei migranti) e quindi nell'incapacità di gestire processi si preferisce la strada semplice del divieto.
Oppure della deroga opportunista: quando gli artisti di strada servono ad animare lo spazio urbano in specifiche occasioni o quando li si sacrifica a comparse del più vasto consumo turistico delle nostre città d'arte. Che vede in centri storici svuotati di cittadini, e quindi di senso civico, una perdurante visione novecentesca della città che non è più quella del terzo millennio.
Noi operatori dell'arte in strada dobbiamo proiettarci invece in quella che acutamente Lucio Altarelli definisce la città plurale, che vede il passaggio dalla modernità alla post modernità, dalla città novecentesca con le sue gerarchie spaziali, a una città orizzontale, policentrica, che si apre alle pratiche dell'istantaneità, dell'evento, della leggerezza, della casualità. Che trasforma potenzialmente qualsiasi spazio urbano in arena e “circo” nel senso proprio di cerchio, come dimensione archetipa del socializzare umano. Azioni deboli ma diffuse che giorno per giorno modificano usi e costumi. Giorno per giorno, come buona pratica propedeutica all'eventuale strutturazione in forma di festival e mai aspettandoci l'esito contrario, ovvero che dal festival effimero consegua una quotidianità delle presenze. Anche perché i festival classici, cui tutti siamo affezionati e che tanto elargiscono in termini di stimoli e percezioni, appartengono concettualmente alle politiche culturali del Novecento, dove non a caso si collocano le prime edizioni di tutti quelli storici fin qui sopravvissuti.
Uno stillicidio quotidiano di bellezza a basso impatto vs l'alluvione festivaliera dei pochi giorni di “mondo alla roersa”; se si vuole poi metterla sul politico ideologico come non sottolineare il fatto che l'ubriacatura carnevalesca (ne parlo a ragion veduta da Veneziano) sia largamente preferita da “chi comanda”, alla presenza enzimatica, continuativa, a tratti disturbante delle arti in strada diffuse nel tempo e nella pluralità degli spazi urbani.
Dispersione vs gerarchia, alla ricerca di una apparente superficialità di contenuti che va vista come pensiero largo e inclusivo e non necessariamente contrapposto alla profondità che fatalmente risulta poco estesa.
Perché il teatro di strada è semplice, simplex ovvero con una sola “piega”, buona per tutti, immediato nel suo parlare alle emozioni di ognuno come sottolineava Paolo Apolito.
E non ci spaventi convivere con l'indifferenza come ricordava Boron. La riappropriazione dello spazio pubblico non è un processo facile, in questo presente stretto tra burofollie ed eccesso di vita virtuale che arriva spesso a sostituire quella reale, tanto che quest'ultima ne assume un ruolo ancillare mentre dovrebbe essere l'esatto contrario.
Ce la faremo. Buona Strada a tutti